Perché dovresti tentare di includere i componenti familiari in tutto il percorso della malattia di Alzheimer, dalla diagnosi alle varie fasi?

  1.  Perché “insieme” è la migliore cura per il dolore
  2. Per dividersi il carico dell’accudimento
  3. Per condividere le scelte difficili
  4. Per aiutarsi ad elaborare meglio il lutto

Sempre più di frequente lavoro con caregiver amareggiati per essere “figli unici” oppure “i soli” che si occupano di… Mentre fratelli e sorelle si defilano.
Assisto a litigate assurde per la lotta a chi fa meglio o a chi fa di più.  
Generalmente “chi fa di più” è il caregiver principale che ha più tempo o semplicemente si fa in quattro per mandare avanti la propria vita e assistere una persona cara ammalata.

Tenta di coinvolgere i familiari ma lo fa in malo modo, aspettandosi lo stesso impegno e lo stesso tipo di dedizione che lui stesso mette nell’accudimento; generalmente si amareggia dicendo che i familiari sono “menefreghisti”, “opportunisti” o ancora “egoisti”, e così via.

Alzheimer e dinamiche familiari

  

Il mio lavoro consiste nel far vedere ai caregiver che

1. Il comportamento dell’accudire è un po’ innato ma in gran parte è qualcosa che si apprende.

Il modo con cui ognuno di noi accudisce è “personale”. Per cultura, abitudine e carattere, ognuno di noi ha sviluppato una propria modalità di “stare vicino” nelle difficoltà. Pensiamo ad esempio alle differenze culturali tra uomini e donne, o ancora alle differenze delle varie culture familiari; in alcune famiglie da alcuni figli ci si aspetta qualcosa e non da altri (magari considerati non in grado). Questo significa che in una stessa famiglia, tre diversi figli avranno imparato ad accudire in modo completamente diverso l’uno dall’altro in base al carattere ma anche in base a cosa ci si aspettava da ognuno di loro

2. L’accudimento è diverso in base alla relazione affettiva che preesisteva alla malattia.

Si parla di caregiver primario, cioè della persona che provvede alla maggior parte delle necessità dell’altro, non a caso. È la persona che si trova più vicina a chi si ammala, e di solito, si trova più vicina perché è la persona con la relazione affettiva più stretta. Questo non vuol dire che la relazione non sia conflittuale, semplicemente è la più vicina affettivamente.

3. Di fronte alla malattia, quindi a dolore e angoscia di morte di qualcuno caro, si mobilitano diverse difese psicologiche come negazione e rimozione.

È frequente che i familiari più lontani, a volte lontani fisicamente da chi si ammala, non essendo “costretti” ad affrontare i problemi quotidiani dell’accudimento, possano rimanere più a lungo in uno stato difensivo. Capita cioè che stando lontani, anche se informati dal caregiver principale, rimangano in uno stato di negazione del problema e non si rendano conto della effettiva gravità della situazione e della necessità della loro presenza.

4. Il rancore e la chiusura non aiutano.

La comunicazione aperta e chiara sulle necessità è cosa rara all’interno dei sistemi familiari. Talvolta non riusciamo neanche ad esprimere a noi stessi ciò di cui abbiamo realmente bisogno, figuriamoci ai familiari. Ci chiudiamo dietro ad aspettative irrealistiche: “dovrebbe sapere che mi serve aiuto”, “dovrebbe essere lui/lei a proporsi di darmi il cambio”, ecc.
Oppure non chiediamo perché “come lo faccio io lui non lo sa fare”, o ancora “non conosce le sue necessità e non è in grado di rispondervi”, ecc. 

Insomma, includere i familiari nell’accudimento è difficilissimo, ma lavorare per riuscire ad includerli è tanto importante quanto saper cambiare un pannolone.

Avere una rete di sostegno, anche se ai nostri occhi è imperfetta e carente, è sempre meglio che non averla affatto.

Ognuno aiuterà come può e per aiutare deve poter essere guidato dal caregiver principale. Siamo noi, i più vicini, ad avere il polso della situazione, a sapere di cosa c’è bisogno. Siamo noi a dover chiedere in modo esplicito non solo aiuto, ma dettagliare il tipo di aiuto che ci serve.

Questo modo di vedere l’accudimento “familiare” ci fa uscire dall’isolamento, ci toglie dalla presunzione e dal delirio di potercela fare da soli. Restituisce la dignità ad ogni componente della famiglia permettendogli di onorare la relazione che aveva con la persona ammalata facendo qualcosa. Non facendo tutto, ma sicuramente facendo qualcosa per l’altro e per noi.

Inoltre ci aiuta a starci vicini nei momenti di dolore. Ricevere una diagnosi insieme, prepararsi al peggio, discutere insieme i pro e i contro delle decisioni difficili, piangere insieme la perdita.

Avere fratelli, sorelle, zii e cugini con cui condividere i “fatti della vita” è la più grande RISORSA di un essere umano.

È vero che siamo tutti soli a questo mondo, ma stare insieme allevia questo senso di solitudine e finitudine che ognuno di noi prova, soprattutto di fronte agli eventi dolorosi.

Non sprechiamola!

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